Sebbene il ruolo della lingua italiana non sia contemplato
nella Costituzione, si è provveduto nel 1999 a legiferare qualcosa in merito
che avesse come scopo sia quello di tutelare le minoranze linguistiche, sia
quello di unire lo stivale almeno linguisticamente. L’art. 1 della legge n. 482
del 15 dicembre 1999 dice e ordina al popolo italiano che la sola lingua
ufficiale è l’italiano.
Seppur, come detto, la tutela delle minoranze
linguistiche sarde (anche qui parliamo di una lingua...), albanesi, slovene, croate, germaniche, franco-provenzale, greche, occitane, ladine, friulane, perfino catalane sono tutelate, non c’è il napoletano e il siciliano, che, seppur lingue riconosciute dall’UNESCO, non
sono tutelate dalla legge n.482 sopracitata. Questo se mai ve ne fosse bisogno
testimonia la sensibilità che le istituzioni riservano al meridione. E parliamo di napoletano e siciliano che non possono essere considerati dialetti, ma sono "Lingue" vere e proprie, di cui del primo ad esempio abbiamo prime tracce già nella lingua osca a Pompei nel
79 d.c..
Ma il napoletano, il siciliano e le loro varianti come dialetti meridionali, possiedono una ricchissima
tradizione letteraria, ad iniziare da quel documento del 960 del famoso "Placito
di Capua" considerato il primo documento in lingua italiana, seppur di fatto,
poi, è in napoletano. Nel medioevo, a Montecassino, i monaci benedettini furono
particolarmente sensibili all’interesse letterario e a alla pubblicazione di
manoscritti che già nel XI secolo erano in volgare e napoletano il cui pregio
stilistico fu eguagliato solo tre secoli dopo da poeti toscani come Dante ad
esempio, che utilizzò in qualche occasione, a quanto sembra, anche lui lo stile
e la lingua appena descritti . Le stesse prose di San Benedetto ne sono la testimonianza
storica letteraria. L’inizio del volgare
si affinò e i poeti siciliani nel XIII secolo, piantano i semi nel terreno di
quella che successivamente maturò come letteratura italiana vera e propria,
aprendo una nuova ed importante era letteraria italiana.
Chi conosce Basile, ed
ha letto il suo capolavoro tradotto successivamente da Benedetto Croce, “Lu
Cunto dè li Cunti”, non farà fatica a capire quanto detto fin’ora, e non farà
fatica a capire che la prosa e la letteratura meridionale sono l’impianto di quella che solo oggi conosciamo come lingua
italiana. Mi fa specie che tutta questa popò di storia, cultura letteraria
autoctona non venga riconosciuta dallo stato alla stessa maniera del croato o
albanese. Possiamo parlare greco o tedesco in Alto Adige se vogliamo, e
redigerne anche documenti ufficiali in quei posti o comuni dove queste lingue
sono tutelate. Ma guai se scritte in napoletano o siciliano seppur lingue
parlate da oltre 12 milioni di persone. Mi fa specie che per legge dovremmo
promuovere, parlare e scrivere in lingua italiana, ma poi sono per primi i
parlamentari a trasgredire a questa legge.
Basta pensare alla valanga di termini inglesi..."Stepchild adoption", si legge e sente
in questi giorni a proposito di Unioni civili, "Welfare" tanto di moda nei
palazzi della politica romana, jobs act, spread, il Premier (una volta
Presidente del Consiglio) ma adesso forse fa più figo Premier...ticket, bond, addirittura TROIKA, che all’inizio sembrava una parolaccia, e potremmo riempire pagine e
pagine di termini che non dovrebbero essere utilizzati per legge.
Ma il
Napoletano no. Il siciliano guai. Anche nello sport l’inquinamento anglofono
prende piede facendo prendere di fatto ancor di più le distanze da quelle
lingue che una volta si esportavano da sole all’estero in letteratura, canzoni,
teatro etc etc. Quella che da bambino ricordavo come Pallacanestro, adesso e
Basket. Quello che una volta era “'O pallone”, il calcio, adesso è football.
Quando si ascoltava la radio “tutto il calcio minuto per minuto” si aspettava
il calcio di rigore e si discuteva sul fuori gioco e il successivo gol venuto
da un calcio d’angolo. Adesso sono diventate Penalty, off side, corner. Carnera
e Nino Benvenuti erano dei pugili che tenevano sveglia l’Italia intera. Adesso
sarebbero dei boxeur. Eppure se vai in Giappone, Vietnam, Nuova Zelanda o
Russia conoscono “ 'O Sole mio” scritta nel 1898 parola per parola, “'O surdato 'nnammurato” del 1915, “Santa Lucia” del 1848, “Te voglio bene assaje” del 1839,
“Ciuri ciuri” del 1833 e tante altre
ancora, sono state, e forse lo sono ancora,
la sola lingua italica conosciuta fuori dallo stivale. Eppure conosciuta
e riconosciuta all’estero, ma straniera e condannata in patria a favore di
altre lingue lontanissime da noi e che ancora non tutti comprendono in Italia.
Penso che la coscienza identitaria che c’è in ogni uno di noi, dovrebbe prevalere e non
permettere la distruzione di un patrimonio genetico culturale che ci appartiene
visceralmente. Dobbiamo sforzarci di insegnare ai nostri figli la nostra
lingua, la nostra cultura, la nostra storia.
Il dialetto o meglio la lingua nostra, soprattutto nel caso di napoletano o siciliano, non è una vergogna o un segnale di ignoranza,
bensì un patrimonio immenso che va preservato e tramandato. Rispettiamo quello
che ci impone lo stato e usiamo la lingua italiana. Ma chiamiamolo fuori gioco
invece che off side. Giochiamo a pallacanestro invece che a Basket. Assieme ai
libri in lingua madre in inglese, compriamo e leggiamo ai nostri bambini “Lu
cunto degli cunti”. E agli insegnati non penso sia vietato, ad esempio,
preparare i bambini a recitare prima del pranzo di Natale davanti a papà e
mamma, una poesia di Salvatore Di
Giacomo dedicata al Natale. Lingua italiana imposta non vuol dire cancellare
millenni di cultura. Tutti possiamo fare qualcosa, e se iniziamo ad usare
qualche parola in inglese di meno e la lingua dei nostri padri in più, forse
renderemo un servigio all’umanità e ai nostri posteri che forse apprezzeranno
più di quanto magari si immagina oggi. L’identità, la cultura, le tradizioni,
la letteratura, la sua storia, non può essere cancella da nessuno, e tutti noi
abbiamo il dovere di preservarla e il diritto di divulgarla. Da un secolo e
mezzo subiamo questa oppressione culturale, e ancora oggi facciamo tanta fatica
a darle il peso che meriterebbe. I tempi non sono ancora maturi al cento per
cento, ma come diceva de Filippo “ adda passa a nuttata”.
Antonio Rosato