mercoledì 8 agosto 2012

"Una, dieci, cento Ilva (nonostante tutto)" di Lino Patruno




di LINO PATRUNO
Da un lato ci sono operai che dicono: meglio un tumore fra venti anni che far morire di fame oggi i miei figli. Dall’altro, i soliti cattivi maestri lontani mille miglia dalla realtà e scandalizzati: come, una alleanza strategica fra lavoratori e padrone? Questa è l’Ilva di Taranto nell’anno del Signore 2012. L’Ilva è l’emblema del più grave problema del Sud: il lavoro che non c’è, e per questo difeso a costo di se stessi. Come se difesa del lavoro e difesa della salute non potessero andare d’accordo, non siamo mica nella Cina della dittatura che ammazza lavoratori e ambiente sull’altare del grande balzo economico. Non ci fosse stata la Regione Puglia a combattere contro il colosso tanto isolata da rischiare anche lo scontro con gli operai, ora lì dentro continuerebbero a guadagnarsi la vita consumandosela. Tanto, la gloriosa politica italiana ha continuato a pensare come sempre ad altro: ora pensa a un sistema elettorale non migliore per il Paese, ma migliore per non andarsene mai. 

Ovvio che nel vuoto sia stata tirata per i capelli la magistratura, a tentare di risolvere un problema che spettava ad altri. Ma l’Ilva, che pure oggi il Sud deve nonostante tutto tenersi strettissima, è anche l’emblema di una fra le tante scelte sbagliate per il Sud, anzi contro il Sud. Quando si decise di accelerarne l’industrializzazione, si pensò di puntare su facilitazioni per le piccole e medie imprese, quelle che con meno capitale producono più lavoro. Ma ci fu la rivolta delle Confindustrie del Nord: mai avrebbero consentito che al Sud nascesse una concorrenza a loro. Così si decise per impianti che divoravano molto più capitale di quanto lavoro producessero: l’esatto contrario di ciò che serviva al Sud. Che non aveva capitali ma lavoratori in cerca di lavoro. Impianti di industria cosiddetta di base, industria pesante che al Nord non volevano (troppo inquinante) ma che al Nord serviva per la materia prima dei suoi prodotti. 

Sud come Terzo Mondo: si massacri di fumi e veleni e ci dia l’acciaio per le nostre auto, i nostri frigoriferi, i nostri cucchiai e forchette che poi rivendiamo a loro stessi tenendoci però il guadagno. Di quel Grande Inganno, ciminiere al cielo per farne scendere benedizione, le guerre del petrolio degli anni Settanta-Ottanta e le crisi finanziarie hanno lasciato al Sud un cumulo di macerie tranne l’Ilva.

Anche l’acciaio di Stato sarebbe stato spazzato via come la chimica e (in parte) la raffinazione del petrolio se l’Italsider non fosse passata a un ruvido e deciso privato diventando Ilva. Ma diventandone anche tanto sangue e corpo, che Taranto non sopravviverebbe a una sua scomparsa, e non solo Taranto. Non piacerà ai puri e duri della sinistra irreale e dell’ambientalismo del no a tutto, ma è così. Eppure, nel surrealismo demenziale della politica italiana, tutti sono prodighi di pensosi consigli del giorno dopo, ma nessuno che veda l’Ilva per quello che effettivamente è. Non il peggiore o il migliore film della catastrofe. Non il mostro che erutta fuoco e morte, l’immagine futurista di un pianeta di Avatar che un giorno ci inghiottirà tutti nell’apocalisse dell’unica terra che avevamo e non abbiamo saputo difendere. 

Ma l’Ilva è un monumento del lavoro del Sud, carne viva di visi scavati, sguardi spaventati, epopea di pendolari: metafora di una condizione del Sud divisa fra la necessità e il rifiuto, psicologia di chi ogni giorno passa quei cancelli aspettando il momento di uscirne ma che mai e poi mai si sognerebbe di perdere il lavoro per una coscienza di classe. E’ lo stesso Sud delle sarte-schiave di Barletta che, dopo il crollo del palazzo e la morte di quattro compagne, invece di fuggire si chiedevano: e ora, chi ce lo dà il lavoro? Bene, questo Sud ancòra una volta è rimasto solo, al di là delle estive parole di circostanza. Non c’è politico, perlomeno del Sud, anzi meno che mai del Sud, che ne abbia colto il dramma per far capire quante altre piccole Ilva ci sono al Sud. Nel senso di quanto lavoro serva al Sud, se per difendere con unghie e con denti quello che si ha ci si può ammalare per le disattenzioni di chi per troppo tempo ha chiuso gli occhi. E però ora c’è lo “spread”, l’attacco all’Italia e occorre difendersi. 

Prima c’era la Questione Settentrionale e occorreva dare soddisfazione a Bossi e ai suoi ladroni. Prima ancòra c’erano i sacrifici per chissà cos’altro, e poi al Sud si davano i soldi e i suoi politici ne erano contenti, potevano distribuirli in cambio di voti. Anzi ora i governi dicono di darli e poi li dirottano altrove. Facciamoci caso: non c’è un programma elettorale, di quelli di nuovi partiti e movimenti che si presentano come fuoco purificatore, che parli del Sud. Controllare l’ultimo dei mille, quello titolato “Fer mare il declino”. Eppure il declino si ferma sviluppando ciò che è meno sviluppato: il Sud appunto, che non salva solo se stesso ma l’intero Paese.

Fonte: La Gazzetta del Mezzogiorno

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