Ricevo da Antonio Ciano e posto:
------------------------------------------------------------------------------
La commissione per la Toponomastica di Gaeta, questa mattina, alle ore 13, ha intitolato una strada ad Angela Romano di anni nove, fucilata dal criminale piemontese Col. Quintini, che già aveva operato crudeli repressioni nel Continente. Abbiamo intitolato anche una strada ad Antonio Orsolino di anni 12, fucilato per brigantaggio; inoltre abbiamo intitolato una strada a Giovanni Cortegiani, fucilato a Fano dai fascisti.
La proposta sarà approvata dalla Giunta come da legge.
----------------------------------------------------------------------------------
Angelina Romano, nove anni; Antonio Colucci, 16 anni, Antonio Orsolino, 12 anni,fucilati dai piemontesi.
Angelina Romano, nove anni, fucilata a Castellammare del Golfo in Provincia di Trapani, pare che l'autore di detto scempio sia stato il colonnello Quintini, noto per aver fatto fucilare altre centinaia di meridionali e plutimedagliato per questo. Poi abbiamo il caso di Antonio Colucci, fucilato all'età di 16 anni; e poi ancora Antonio Orsolino, di 12 anni, condannato alla fucilazione per brigantaggio. Don Paolo Capobianco, prete di Gaeta morto alla veneranda età di 99 anni, ci raccontava di un pastorello fucilato a Monte Sant'Agata, collina di Gaeta. Il ragazzo, pare avesse solo 8 anni, e fu fucilato perchè trovato con scarpe per lui grandi, ma piemontesi. Le aveva tolto dai piedi di qualche soldato morto. Cercheremo di onorarli. A gaeta domani si riunisce la commisisone per la Toponomastica, vorremmo intitolare loro una strada.
I tribunali di guerra dei Savoia.
I bravi piemontesi misero subito in azione quello che da mesi era già preventivato: misero in stato di assedio tutte le province del Mezzogiorno continentale ad eccezione di quelle di Teramo, Reggio Calabria, Napoli, Bari e Terra d’ Otranto già abbondantemente massacrate dall’esercito sabaudo. Il ministro della Guerra istituì Tribunali di guerra a Potenza, a Foggia, ad Avellino, a Caserta, a Campobasso, a Gaeta, a L’Aquila, a Cosenza che si aggiungevano a quelli di Bari, di Catanzaro, di Chieti e di Salerno. Il comportamento dei giudici militari di quei tribunali è stato a dir poco spregevole, orripilante: gli assassinii venivano legalizzati da un ufficiale facente le funzioni di giudice; le condanne a morte furono tante, tantissime, a volte anche senza processo. Quegli ufficiali mettevano a verbale solo qualche processo intentato dalla giustizia ordinaria, gli altri no.
Pasquale Stanislao Mancini, qualche anno più tardi affermò di volersi astenere dal meglio precisare le critiche verso quei tribunali di guerra, per non essere costretto “ a fare rivelazioni, di cui l’Europa dovrebbe inorridire”( Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano, 1983, pag 287)
Alcuni deputati meridionali, accortisi dell’inganno piemontese, accortisi che i governanti erano i veri esecutori di assassinii perpretati ai danni della gente del Sud, fecero le loro rimostranze alla Camera, ma era ormai tardi. Riferisce il Molfese:”è certo che la procedura seguita nei giudizi militari lasciò molto a desiderare ...Luigi Minervini , nel giugno del 1864, affermò alla Camera cose molto gravi...dichiarò di possedere tutti gli estremi, che del resto erano ben noti al ministro della guerra. Nei verbali dei dibattimenti, in generale risultavano soltanto le generalità dei testi a carico o a discarico, ma non le loro deposizioni. Erano stati condannati a morte colla fucilazione individui volontariamente presentatisi, minorenni non catturati in conflitto, individui non punibili per brigantaggio ma soltanto per reati comuni...mogli di briganti condannate ai ferri a vita...fanciulle inferiori ai 12 anni, figlie di briganti avevano subito condanne di 10 o 15 anni...”( Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, feltrinelli editore, Milano, 1983, pag 287)
Secondo i dati ufficiali resi noti da Petitti di Roreto, tra l’agosto del 1863 e il 31 dicembre del 1865 i tribunali militari giudicarono 10.666 persone di cui 2.901 nel 1863; 4.523 nel 1864; 3.242 nel 1865. Sempre secondo Petitti furono condannate 2.118 persone, ne furono rimesse ad altra giurisdizione 1.686, decedute in carcere 123, assolte 6.739. Dei 697 assolti del 1863, 270 vennero rimessi alle giunte per il domicilio coatto. Delle 1035 condanne del 1865, secondo i dati ufficiali, 55 furono a morte, 83 ai lavori forzati a vita, 567 ai lavori forzati a tempo, 2 alla reclusione militare, 306 alla reclusione ordinaria, 22 al carcere.( Franco Molfese, Storia del Brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli Editore, Milano, 1983, pag 289)
Ma per lo più gli imputati o presunti tali non arrivavano mai al cospetto di un tribunale, venivano infoibati vivi, fucilati o uccisi per tentata fuga. Un vero massacro.
Ciò ci è confermato anche dal Molfese a pag 291 del suo lavoro: “...quanti furono gli arrestati per la legge Pica? È praticamente impossibile stabilirlo. Le cifre di fonte governativa fornite alla Camera dalla commissione incaricata...sono ridicolmente esigue: 179 briganti e 941 manutengoli ...a dicembre del 1863...”.
Cifre smentite dalla stampa e dalle notizie che penetravano nelle redazioni dei giornali. Il 24 ottobre del 1863 Giornale Officiale di Napoli annunciò che erano stati arrestati 34 sindaci, 61 magistrati e 80 ufficiali della guardia nazionale e secondo il Roma, soltanto nel Salernitano, fra l’agosto ed il novembre del 1863 erano stati arrestati 51 comandanti della guardia nazionale su un totale di 159 comuni. Nella sola Basilicata, nei soli primi sei mesi dell’applicazione della legge Pica vennero effettuati 2.400 arresti; di questi ben 375 uomini e 140 donne furono inviati al domicilio coatto. Luigi Dragonetti scrisse a Silvio Spaventa che nella provincia dell’Aquila, ormai generalmente poco infestata dai briganti, erano stati arrestati 400 manutengoli. Si parlò di 12.000 arrestati e deportati. Nel settembre del 1863 erano già un migliaio gli inviati al domicilio coatto nelle isole dell’Elba, Gorgona, Capraia e Giglio.(Franco Molfese, Storia del Brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli Editore, Milano, 1983, pag 291)
47.700 carcerati, 15.665 fucilati in un anno
Lo storico e patriota Giacinto De Sivo ci fa sapere che durante il 1861, sotto il governo piemontese i misfatti quintuplicarono. Napoli, ormai diventata una delle 24 province meridionali, ebbe 4300 reati di sangue, con i Borbone mai erano arrivati a mille. Il deputato Ricciardi, il 27 giugno del 1862 disse in Parlamento che i carcerati, nella sola parte continentale dell’ex Regno delle Due Sicilie erano 47.700 e i fucilati furono 15.665.(Giacinto De Sivo, Storia delle Due Sicilie, Edizioni Brenner, Potenza, Vol.II, pag.492)
... non lascia punto
Il Tribunale di Guerra di Caserta processò per “ connivenza”la signora Maria Saveria Parente, di San Giovanni di Ceppaloni, in provincia di Benevento, di 52 anni, madre di sette figli; il 13 giugno del 1864 la condannarono a sette anni di carcere duro per aver fatto dormire nella sua stalla un suo compaesano, tale Carmine Porcaro, noto brigante del luogo. Costui, in una sera piovosa si era a lei presentato vestito da frate ricevendo accoglienza anche perchè irriconoscibile per colpa del buio e della pioggia.
La Parente, tramite l’avvocato fiscale, ricorse avverso la condanna alla Corte d’Appello di Torino col risultato di vedersi confermare dai signori magistrati torinesi la condanna di primo grado. Maria Saveria li scontò tutti. “Considerato in ordine alla competenza che il titolo del reato dianzi specificato di cui era la Parente imputata - recita la motivazione dei giudici - e per cui veniva condannata, non lascia punto dubitare che ai sensi della legge 7 febbraio 1864...rigetta il ricorso della Maria Saveria Parente...”. La Parente era stata arrestata nel dicembre del 1863, quindi avrebbe dovuto essere giudicata secondo le leggi allora in vigore, ma i magistrati torinesi...senza lasciar punto...rigettarono il ricorso della coraggiosa mamma sannita perché una legge del sette febbraio dell’anno seguente prevedeva ciò che non era previsto l’anno precedente.( Archivio Centrale dello Stato, Roma, Tribunali Militari per il brigantaggio, Busta numero 55, fascicolo 735).
Tutte le sentenze sono state fatte in nome di Vittorio Emanuele II. I Savoia sono avvertiti, anche se eredi di quella progenie, potrebbero essere processati per leggi successive a quelle esistenti oggi, o, ieri.
Condannata donna di 88 anni
Donata Caretto, di 88 anni viene arrestata il 14 novembre del 1863 con l’accusa di aver procurato viveri al brigante Nicola Tocci della banda Caruso; il 2 luglio viene processata e condannata a sette anni di reclusione. Sia il tribunale di guerra di Caserta che quello superiore di Torino, che respinse il ricorso della Caretto, non contemplavano l’età di un imputato né la solidarietà cristiana innata delle popolazioni meridionali. Erano gli effetti della Legge Pica, e non solo. (Archivio centrale dello Stato, Roma, Tribunale Militare di Guerra di Caserta, cartella N° 30 Processo N° 153)
Antonio Colucci, 16 anni
A Baiano, il 12 marzo del 1862, fu fucilato Antonio Colucci, un contadinello di 16 anni. Il ragazzo, per evitare uno scontro sul suo terreno coltivato, avvertì i patrioti dell’arrivo della truppa piemontese. Preso e interrogato dai savoiardi raccontò la sua verità. Lo condussero davanti ad un tribunale di guerra che gli inflisse la pena capitale. Otto militi della guardia nazionale furono prescelti per l’esecuzione, fra di essi vi era anche il compare del ragazzo. I colpi dei militi sbagliarono il bersaglio, pensiamo volutamente, non colpirono il contadinello in erba; allora quattro soldati piemontesi, afferrato il ragazzo, senza pietà lo stesero a terra. Il padre del ragazzo, impazzito, fu tradotto in carcere. (Michele Topa, I briganti di Sua Maestà, Editrice Fratelli Fiorentino di Fausto Fiorentino, Napoli.)
Orsolino Antonio, 12 anni, fucilato
Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta, dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa, dov’è la vittoria, le porga la chioma, che schiava della Padania Iddio non la creò, stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte...
Su! Meridionali! Cantate a squarciagola l’inno nazionale padano; carabinieri, finanzieri, guardie di pubblica sicurezza, calciatori azzurri, su, cantiamolo forte, è l’inno di Mameli!
Quale sentimento provarono i soldati del plotone di esecuzione che fucilarono Antonio Orsolino nato a Casalnuovo Monterotaro di Foggia, pastore ancora in erba, di anni 12 ( dodici), domiciliato a Casalvecchio?
Fu preso sulle montagne tra Arienzo e Santa Maria a Vico il primo settembre del 1863 e giudicato dal tribunale di guerra di Caserta il 2 marzo del 1864 per il reato di brigantaggio secondo gli articoli 596 § 1 e 247 § 1 del Codice Militare.( Archivio Centrale dello Stato, Roma, Tribunale Militare di Guerra di Caserta, Cartella N° 37)
Il ragazzino andò fiero davanti al plotone di esecuzione, certo di imitare i suoi eroi, certo di aver difeso le sue pecore dalle ruberie piemontesi, certo di giocare a briganti e ladri, come si usava nel meridione. Aveva dodici anni! Agli ufficiali che condannarono il ragazzino un giorno dedicheremo una stele, un monumento di marmo bianco con la scritta “ Comandati dai Savoia a fucilare donne e bambini, siamo stati assassini e non soldati.
Tratto dal libro di Antonio Ciano: "Le stragi e gli eccidi dei Savoia - esecutori e mandanti".
Nessun commento:
Posta un commento