Di Chiara Fera
Meridionali e Resistenza, un ossimoro? Risponde Roberto Placido, vicepresidente del Consiglio regionale del Piemonte. Fu, la Resistenza (1943-1945), un grandioso fatto storico consumatosi nel triangolo industriale e nel centro del Paese con drammatiche fiammate di violenza che hanno avuto come scenario Roma (l’attacco di via Rasella e l’eccidio delle fosse Ardeatine)?
Per rispondere a questa domanda e gettare alle ortiche un insulso luogo comune secondo cui i meridionali sarebbero stati a guardare, il Consiglio regionale del Piemonte, auspice il suo vicepresidente Roberto Placido, di concerto con Claudio Dellavalle, presidente dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della Società contemporanea “Giorgio Agosti”, ha dato alle stampe un volume prezioso.
Titolo dell’accurata ricerca, realizzata con il contributo di tutti gli Istituti della Resistenza del Piemonte e con l’obiettivo di promuovere un’indagine sull’apporto di quei giovani e meno giovani dell’Italia del Sud che fecero parte, con ruoli e responsabilità diverse del movimento di Liberazione: “Il contributo del Sud alla lotta di Liberazione in Piemonte 1943-1945”.
Per fare il punto sulla documentata ricerca che nel Nord indica seimila partigiani meridionali (di cui mille calabresi) ed illustrata a in un convegno su “Resistenza e meridionali” svoltosi a Torino, ma anche per tentare di chiarire meglio una delle questioni laterali (l’apporto dei meridionali alla Resistenza) ma cruciale per il processo unitario del Paese che ormai, nonostante quale voce stonata, è più che consolidato, abbiamo interpellato il vicepresidente del Consiglio regionale Roberto Placido.
Titolo dell’accurata ricerca, realizzata con il contributo di tutti gli Istituti della Resistenza del Piemonte e con l’obiettivo di promuovere un’indagine sull’apporto di quei giovani e meno giovani dell’Italia del Sud che fecero parte, con ruoli e responsabilità diverse del movimento di Liberazione: “Il contributo del Sud alla lotta di Liberazione in Piemonte 1943-1945”.
Per fare il punto sulla documentata ricerca che nel Nord indica seimila partigiani meridionali (di cui mille calabresi) ed illustrata a in un convegno su “Resistenza e meridionali” svoltosi a Torino, ma anche per tentare di chiarire meglio una delle questioni laterali (l’apporto dei meridionali alla Resistenza) ma cruciale per il processo unitario del Paese che ormai, nonostante quale voce stonata, è più che consolidato, abbiamo interpellato il vicepresidente del Consiglio regionale Roberto Placido.
Sul ruolo del meridionali nella Resistenza non mancano pubblicazioni anche significative, né sono mancati i riferimenti a personaggi di primo rilievo sia per l’attività politica, sia per l’attività militare. In che cosa la ricerca in questione può essere considerata originale?
La ricerca intende affrontare la partecipazione e il ruolo avuto da migliaia di giovani meridionali nella resistenza nella nostra regione non come un contributo aggiuntivo, ma come un elemento costitutivo della lotta di liberazione. Quindi, come un dato che costringe a ripensare l’insieme del movimento e il suo significato generale, nazionale. La Resistenza è stata sempre vista come fenomeno circoscritto al Centro-Nord del Paese. Le generazioni di origine meridionale che negli anni, in Piemonte e nelle altre regioni, hanno partecipato alle manifestazioni celebrative sono sempre state mosse da motivazioni politico-idelogiche più che da un sentimento dovuto alla partecipazione attiva alla lotta di Liberazione. Oggi, questa ricerca ed il convegno organizzato a Torino , riconducono a un orizzonte di insieme, integrando lo sguardo da Sud con quello da Nord, così che l’approfondimento delle conoscenze possa portare ad una giusta valorizzazione di quell’esperienza. D’ ora in avanti, anche i discendenti di chi ha partecipato a quella straordinaria esperienza, potranno sapere, con orgoglio, di essere stati protagonisti della costruzione della democrazia italiana. Di qui la necessità non solo di un rapporto integrato tra i ricercatori, ma in primo luogo delle istituzioni, nazionali e locali, per creare le condizioni per poter procedere in modo unitario. Il convegno tenutosi a Torino il 16 giugno scorso, in cui erano presenti oltre alla Regione Piemonte, le sei Regioni meridionali e la vice Presidente del Senato, senatrice Fedeli, hanno rappresentato bene questa esigenza unitaria. Lo straordinario successo del convegno, successo di pubblico e di presenze istituzionali, fa ben sperare sulla possibilità di realizzare la ricerca, attivando sia gli Istituti storici della resistenza, sia associazioni e singoli ricercatori interessati su obiettivi comuni
Può citare eventi specifici o nomi di meridionali che, partecipando alla Resistenza in Piemonte, hanno pagato prezzi elevati per quelle scelte e verso i quali la sua regione ma direi il Paese hanno un enorme debito di riconoscenza?
Non c’è che l’imbarazzo della scelta, perché nelle formazioni piemontesi entrarono molti giovani meridionali, di diversa estrazione sociale, di diversa formazione: in altre parole una parte significativa della migliore gioventù meridionale. In appendice al volume, che si è voluto preparare per dare risalto e concretezza alla proposta di ricerca e che è stato presentato al convegno del 16 giugno, sono riportati centinaia, migliaia di nomi di partigiani meridionali. Rispetto ai dati di cui oggi si disponiamo, ad esempio sono circa un migliaio i partigiani di origine calabrese. Per altro nella prima parte del volume sono riportati alcuni storie e profili di singoli combattenti per far cogliere, a puro titolo di esempio, le molte articolazioni con cui quella presenza si è manifestata. Il profilo della singola persona, del singolo partigiano va assolutamente riconosciuto e valorizzato. Però è anche vero che quando si supera una certa soglia quantitativa i comportamenti individuali producono effetti collettivi complessi, che richiedono per essere compresi di essere collocati nelle vicende degli anni 1943-45.
Com’è avvenuta l’aggregazione dei meridionali nel movimento di liberazione piemontese? Quali sono state le ragioni e le dinamiche fondamentali?
Si possono riconoscere due percorsi: il primo è costituito da quei meridionali che vengono sorpresi dall’8 settembre mentre stanno svolgendo il servizio militare in Piemonte. Se riescono a sfuggire ai tentativi di cattura da parte dei tedeschi, hanno due scelte: nascondersi o aggregarsi alle formazioni partigiane che si vanno costituendo. Un secondo percorso riguarda i meridionali che sono già in Piemonte, o perché immigrati negli anni precedenti o perché nati in Piemonte da famiglie di meridionali immigrate a partire dagli anni del primo dopoguerra. Malgrado gli ostacoli frapposti dal regime fascista, i flussi immigratori non si fermarono e portarono, soprattutto nei centri industriali, soprattutto a Torino, quote consistenti di immigrati da Sud, un’anticipazione del massiccio esodo che si produrrà negli anni Cinquanta. L’aggregazione fra meridionali segue percorsi diversi: può derivare dal fatto di essere militari nella stesso reparto o nella stessa caserma, o di essere relativamente vicini alle basi delle formazioni partigiane. La scelta può essere immediata oppure essere il risultato di una valutazione più meditata e quindi dilazionata di qualche mese. A volte dipende molto dall’ esigenza di mantenere un rapporto tra “paesani”, come espressione di una solidarietà regionale che l’uso del dialetto rendeva immediatamente evidente.
Nella ricerca sono inserite mirabilmente due storie esemplari di partigiani meridionali, quella di Nunziato di Francesco che nasce a Linguaglossa (Catania) e di Michele Ficco di Cerignola (Foggia)…Vuole ricordare qualche storia tra i mille calabresi che hanno combattuto fascisti e nazisti?
Tra i calabresi a puro titolo esemplificativo si possono ricordare i fratelli Nicoletta, originari di Crotone, che ebbero un ruolo notevole fin dalle prime battute nell’organizzazione del movimento partigiano nelle valli a ovest di Torino, in un’area che conobbe scontri durissimi e continuamente rinnovati tra tedeschi e fascisti e formazioni partigiane di diversa ispirazione. Giulio Nicoletta interpretò in questo contesto un ruolo originale di comandante-mediatore riconosciuto da tutte le formazioni presenti in quelle valli. Oppure, si può citare il nucleo di ufficiali di origine calabrese che divennero una parte importante delle strutture di comando delle formazioni garibaldine nel Biellese orientale o le decine di giovani calabresi, che caddero in quei mesi e per i quali la ricerca dovrebbe aiutarci a rinnovare ricordo e gratitudine.
Si può asserire, senza nulla togliere a nessuno, che probabilmente i meridionali che hanno aderito alle lotte partigiane in Piemonte ma in generale nel Nord del Paese, correvano rischi anche più grossi?
Certamente i giovani di origine meridionale che operarono nelle fila della resistenza piemontese si trovavano obiettivamente in una condizione di maggiore difficoltà rispetto ai loro coetanei piemontesi, perché la loro condizione di sbandati non era compensata da nessun retroterra ( familiare, di comunità) su cui contare per sfuggire alla minaccia della cattura, della deportazione o dell’uccisione. Erano cioè più esposti al rischio. Nei contesti rurali, questo rischio poteva essere contenuto da atteggiamenti diffusi nella popolazione di protezione nei confronti di giovani che il più delle volte condividevano con i locali una comune cultura contadina.
La presenza di tantissimi meridionali in Piemonte nel triangolo industriale, molti dei quali sono stati partigiani, non ritiene sia dovuta anche ai flussi migratori provocati subito dopo l’Unità dal modello squilibrato di sviluppo che è stato imposto all’Italia: il Mezzogiorno come bacino di forza lavoro da utilizzare per l’industrializzazione del Nord?
Come si è accennato prima, l’approfondimento di quella componente meridionale della resistenza, che deriva dai flussi migratori degli anni Venti e Trenta, è certamente un obiettivo della ricerca, che non sarà facile cogliere fino in fondo per la difficoltà di disporre di una adeguata documentazione. Tuttavia, è un percorso da tentare per due ragioni principali: la prima deriva dal fatto che abbiamo esempi particolarmente significativi della rilevanza del problema ( vedi ad esempio la figura di Dante Di Nanni); la seconda che questa dimensione ci apre un territorio poco frequentato che riguarda la partecipazione alla lotta di resistenza nelle realtà urbane, in cui lo scontro ha un tasso di pericolosità spesso più elevato rispetto alle formazioni che operano nelle valli e comunque in un ambiente contadino. Questo tipo di partecipazione alla lotta, richiede motivazioni politiche più definite, soprattutto in rapporto ai movimenti di lotta che si manifestano nelle fabbriche in parallelo con la lotta armata delle formazioni partigiane.
Quando diciamo che sono stati tantissimi i meridionali tra i partigiani in Piemonte, possiamo andare oltre e fornire qualche numero preciso, magari spiegando come si è giunti alla determinazione del dato?
I numeri che sono stati forniti derivano da un grosso lavoro compiuto in occasione delle celebrazioni del cinquantesimo della Liberazione dagli Istituti piemontesi. Venne allora costruito un data base che ha reso disponibili i dati su ogni singolo partigiano che aveva richiesto dopo la fine della guerra il riconoscimento dell’attività svolta. I dati sui partigiani meridionali derivano da questo data base, che è una fonte preziosa, ma che richiede oggi alcuni interventi di affinamento e completamento.
Si può anche individuare, grosso modo, l’orientamento politico dei meridionali che aderirono al movimento di liberazione ?
Salvo qualche caso si può avere solo un’indicazione indiretta sull’orientamento politico delle formazioni di cui i partigiani meridionali fecero parte. Va tenuto presente che si tratta di un indicatore di massima, perché non c’è un rapporto diretto tra il colore della formazione e la scelta politica dei partigiani che in essa militano. Sulla fedeltà politica prevale quella di appartenenza e, quindi, di rapporto personale con il comandante o con i compagni. La banda partigiana, rispetto ad una formazione militare tradizionale, ha un tasso elevato di autonomia che dipende dal rapporto tra i comandanti e i singoli partigiani. Inoltre, gran parte dei partigiani sanno poco o nulla di politica; salvo il caso di una minoranza che viene dall’antifascismo storico, la prima maturazione politica per molti di loro avviene nel corso di quell’esperienza eccezionale che fu la lotta di liberazione. Da questo punto di vista, diventa interessante riuscire a seguire le vicende dei partigiani nel dopo liberazione, per cercare di capire come quell’esperienza poté incidere sugli orientamenti successivi e sulle loro scelte di cittadini.
Per lo più sono stati gregari o si individuano tra meridionali personalità di spicco?
Questa è una domanda da verificare con la ricerca. Per ora, possiamo dire che furono di origine meridionale comandanti tra i più prestigiosi e amati del movimento partigiano piemontese. Possiamo citare Pompeo Colajanni o il già ricordato Giulio Nicoletta. Così come tra i cosiddetti gregari possiamo citare figure splendide di protagonisti che seppero dare un’impronta precisa al loro impegno fino alla prova estrema. La ricerca su questo piano ci potrà riservare interessanti sorprese e forse a scoprire una forte omogeneità di comportamenti tra partigiani che pure provenivano da contesti lontanissimi.
Fonte: Calabriaonweb
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